giovedì 2 maggio 2013

Il tempo di andare..

Cari amici e care amiche del Mafraj, per me è arrivato il tempo di andare.
per me è arrivato il tempo di andare..
E' un ritmo ciclico, quello dell'andare e resistergli vuol dire fermare il proprio orologio da polso, illudendosi di aver fregato nientemeno che il TEMPO.

Vado al nord, direzione Trentino-Alto Adige, un pò per amore, un pò per lavoro.. ma soprattutto perchè è la mia vita che me lo chiede. Adesso.

Qualche anno fa non sarei stata affatto capace di seguire questo vento del nord e le sue convocazioni, ma adesso è arrivato il mio kairòs, il mio tempo opportuno.
Credo che ci siano passaggi in cui si sente che ha davvero poco senso incaponirsi a non perdere ciò che si ha ed è necessario, piuttosto, scoprire la possibilità di ri-trovarlo ad ogni ritorno, tra continuità e trasformazioni.

Io mi trovo ad uno di questi passaggi, davanti a pacchi e valigie preziose, ma che hanno bisogno di restare leggere per fare posto anche ad altro.

Adesso sento che questo andare può essere un gioco di addizioni e non uno strappo.
Qualche tempo fa, in  libreria sono stata attratta dal titolo di un libro di Carmine Abate: "Vivere per addizione".  
Oggi faccio mie le sue parole:

"Voglio vivere per addizione, miei cari, senza dover scegliere per forza tra Nord e Sud..." 
                                                                      C. Abate, Vivere per addizione, Mondadori.




lunedì 8 aprile 2013

Pappardelle con asparagi e salmone

Cari amici e care amiche del Mafraj,
oggi vi regalo una ricetta!
Questo piatto di Ballar'home è irresistibile per gli adoratori della pasta, ma soprattutto per gli amanti delle sperimentazioni e dei nuovi accostamenti.
Si tratta di pappardelle, asparagi, salmone, ma non solo.. vi propongo di aggiungere granella di pistacchio siciliano e radicchio!
Et voilà..
Pappardelle con asparagi e salmone

Ecco la ricetta:

INGREDIENTI

  • 1 cipolloto scalogno oppure un porro
  • 1 mazzetto di asparagi coltivati
  • 100 gr. di salmone affumicato
  • crema di riso/d'avena o panna vegetale a base di soia.
  • granella di pistacchio
  • qualche foglia di radicchio
  • 400 gr. di pappardelle


PREPARAZIONE


Sbollentiamo gli asparagi in acqua poco salata e poi scoliamoli e tagliamoli a tocchetti, mettendo da parte le punte. 
Conserviamo però l'acqua di cottura degli asparagi, ci servirà tra poco.
Facciamo soffriggere pochissimo la cipolla (dopo averla tagliuzzata finemente)su un filo d'olio e poi uniamo gli asparagi a tocchetti. 
Facciamo insaporire il tutto e versiamo poi un pò di crema di riso o panna vegetale a base di soia. 
Basteranno 2 o 3 cucchiai per amalgamare il tutto, non è il caso di usare l'intera confezione. 
Frulliamo il tutto con il mixer. Intanto, tagliamo a listarelle il salmone e  per qualche minuto in padella con un filo d'olio. Sfumiamo con un pò di vino bianco ed eventualmente con un pò dell'acqua di cottura degli asparagi. 
Uniamo il salmone alla crema di asparagi ed aggiungiamo le punte che avevamo tenuto da parte. 
Nel frattempo, tagliamo a listarelle tre foglie di radicchio e saltiamolo in padella per qualche minuto con un filo d'olio, sfumando con l'acqua di cottura degli asparagi. 
Intanto, tostiamo per qualche secondo 3/4 cucchiai di granella di pistacchio.
Uniamo alla crema di asparagi e salmone  il radicchio e le punte di asparagi che avevamo tenuto da parte.  Non appena saranno pronte le pappardelle (lasciamole un pò al dente), mantechiamo tutto insieme sul fuoco (versando un pò di acqua di cottura degli asparagi se il tutto ci sembra troppo asciutto).
Aggiungiamo alla fine la granella di pistacchio.

Il pranzo è servito!
Buon appetito




lunedì 25 marzo 2013

Un monumento alle donne violate. Quando immagini mute dicono quel che le comunità sentono

Violata è il titolo di un'opera inaugurata sabato scorso ad Ancona. 
La prima statua in Europa in onore delle donne vittime di violenza - così viene presentata da diversi giornalisti - è un'opera realizzata per il comune dallo scultore Floriano Ippoliti.
Fattezze giunoniche per un simulacro di donna a testa alta con abiti stracciati sui punti giusti e, pertanto, sodi seni e glutei al vento, vita molto bassa e gambe divaricate. Completa il tutto una borsetta con manico, un pò vintage. 
Ah, dimenticavo: il tutto è incomprensibilmente blu, per la gioia degli estimatori di Avatar (o di Puffetta).

Come nasce l’opera? Così risponde Floriano Ippoliti ad un quotidiano online abbruzzese: 
Ero rimasto molto colpito da un fatto di cronaca avvenuto due tre anni fa: una signora tornando dalla spesa era stata violentata e uccisa. Mi chiesi  come avrei reagito, cosa avrei provato se fosse successo a mia moglie. La cronaca ci riporta immagini di donne violate con il capo reclinato, in atteggiamento di grande sofferenza e grande timore. Io invece ho voluto rappresentare una donna che reagisce,  che per prima cosa raccoglie la sua borsa e poi rialzandosi guarda fiera al futuro, non lasciandosi intimidire dalla violenza subita”. 
Taglio corto: io trovo questa immagine un pugno nell'occhio prima ancora che una rappresentazione stereotipata e controproducente di un fenomeno. 
È sempre piuttosto imbarazzante dire di un'opera artistica che la si trova brutta, semplicemente brutta. Ma se c'è una libertà dell'espressione artistica, perché non dovrebbe essercene una, pura e semplice, di chi ne fruisce? 
Detto questo, il tema affrontato da Ippoliti è un tema sociale di grande rilevanza, che chiama in causa chiunque. Per questa ragione la riflessione sul come lo si rappresenti è doverosa, non perché ad un'artista si debbano imporre solo opere in qualche modo didattiche, che fotografino correttamente la realtà, ma perché   la genesi di quel come probabilmente ci fotografa come comunità, dicendo molto del modo in cui il fenomeno è sentito. Tanto più che la statua di Floriano Ippoliti è stata voluta e poi accolta da una comunità, dai suoi rappresentati istituzionali, da diversi cittadini e perfino da alcune associazioni femminili, stando a quanto riportato da alcuni notiziari online locali (Fonte: Notizie di zona).


È lo stesso Ippoliti a dire che lo spunto per il suo lavoro è stata una reazione emotiva ad una notizia di cronaca (presumibilmente conforme ai consueti canoni giornalistici sull'argomento, ovvero sbattuta in faccia con un misto di approssimazione e morbosità splatter). 
Verosimilmente l'impatto della notizia ha immediatamente innescato l'immedesimazione, la fatica di tollerarla e il bisogno conseguente di fuggire un dolore toccato in vivo per poco meno di un'istante. 
In circostanze come queste, ci si porta però appresso l'orribile idea che la prossima volta possa anche toccare a te (se si è donne) o a tua moglie. 
Se si è - almeno - avuta la lucidità di non attribuire la colpa alla stessa vittima (per i suoi vestiti provocanti per esempio) è effettivamente piuttosto difficile pacificarsi l'animo ed estrarre se stesse o la propria moglie/sorella/figlia dal novero delle possibili "prossime".
L'informazione appiattita sulla sola emozione produce questo: attiva, ed anche parecchio, ma innesca reazioni piuttosto che conoscenza e creazioni.
Di qui al sentire l'urgenza di negare l'effetto di un atto che uccide, immaginando (e augurando) una veloce resurrezione con tanto di borsetta alla mano, il passo è breve. E - come 'Violata' insegna - non è detto che a quel punto non risbuchino dalla finestra certi stereotipi sull'aspetto delle candidate ideali alla violenza che magari si erano cacciati via dalla porta principale del regno delle intenzioni.

Molte donne impegnate in una riflessione critica sulla rappresentazione del femminile nei media (Michela Murgia, Lorella Zanardo, Loredana Lipperini, Luisa Betti, le blogger di Vita da Streghe e Un altro genere di Comunicazione, solo per citarne alcune) hanno più volte sottolineato la pericolosità di una comunicazione sul tema della violenza di genere che raffigura la donna come bersaglio fragile da proteggere dal rischio - connaturato all'essere donna, secondo questa visione - di essere "sporcata". 
Rappresentazioni del genere schiacciano le donne nel ruolo di vittime e mistificano la realtà insinuando sottilmente che donne forti e volitive siano immuni dal rischio di subire violenza, idea ampiamente contraddetta dai dati. 

Paradossalmente però, nel caso dell'artista Ippoliti l'obiettivo di rappresentare una donna non schiacciata, ma in grado di rialzarsi e guardare al futuro, ci consegna un'immagine stridente che non a caso non può che chiamarsi, ancora e soltanto, Violata.
Quell'auspicio - abbastanza superficiale - che le donne sappiano non farsi intimidire, mi fa sorridere amaramente, perché i segni della violenza sono lividi nella psiche e spesso sul corpo, mai timidi rossori facili da scacciare, magari con un pò di selfhelp. 
Qualcosa accomuna le "rose bianche sporcate dalla nera violenza" (di una nota campagna istituzionale) e l'eroina blu-avatar di Ippoliti. 
Azzardo un'ipotesi: mentre nel primo tipo di immagini si mette in scena la volontà di tutelare un prima mitico connotato dalla purezza e dalla bontà di chi, in quanto pura e fragile, non merita la violenza, nella rappresentazione  un pò bionica di Ippoliti si auspica una sorta di tutela del futuro, ma quello di chi? 
L'idea che la donna assuma in qualche modo la violenza subìta e la metabolizzi velocemente, in fondo non è nuova, al contrario, mi sembra richiami una retorica patriarcale che santifica le donne-madricoraggio in grado di passare oltre a dolori anche estremi pur di garantire il futuro dei figli/della comunità, facendosi forza per gli altri. 
Il passato ed il futuro anteriore mi sembrano i tempi privilegiati da entrambe queste tipologie di rappresentazioni del fenomeno. 
Ma chi si farà carico, con le donne che vivono la violenza, del loro presente e del loro futuro prossimo? 
Le nostre comunità non sono probabilmente ancora del tutto disposte a farlo, lo rappresentano molte comunicazioni istituzionali come molte prove artistiche (o pseudo-tali).

domenica 24 marzo 2013

La differenza fra pedagogia e demagogia. Intervista a D. Pennac

D. Pennac.
Martedì 26 Marzo, lo scrittore riceverà la Laurea 
Honoris Causa in Pedagogia all'Università di Bologna
Riporto qui uno stralcio dell'intervista a Daniel Pennac, pubblicata ieri (23 Marzo 2013) su Repubblica.
Parole preziose...
D. Pennac: Oggi abbiamo bisogno di persone che cerchino di comprendere le paure di un adolescente, prima ancora di insegnargli qualcosa. È questa la funzione del pedagogo. Quando insegnavo cercavo sempre di capire i timori dei miei studenti, proprio perché nella mia infanzia scolastica la paura - di sbagliare, di non essere all'altezza, di non farcela - ha svolto un ruolo capitale. E per non far paura agli allievi, dobbiamo evitare di presentarci come i guardiani del tempio, provando invece a trasmettere loro la felicità che proviamo quando frequentiamo i libri. La lettura a voce alta è uno dei modi che consente di trasmettere questo sentimento di felicità, come pure la sensazione di liberazione che essa procura (...).
Intervistatore: Chi sono i guardiani del tempio?
D. Pennac: I guardiani del tempio sono coloro che confiscano la cultura per se stessi, difendendo i propri interessi e le proprie confraternite, e soprattutto decretando l'indegnità di certi lettori solo perché leggono determinate tipologie di libri. Sono  quelli che dai lettori esigono sempre un commento d un giudizio, preferibilmente in sintonia con il loro. Secondo me, invece la letteratura non ha nulla a che vedere con la comunicazione. Nessuno deve essere costretto a comunicare agli altri la natura del piacere procuratogli dalla lettura. La lettura è innanzitutto qualcosa per se stessi. È un rapporto d'intimità tra uno scrittore e un lettore. 
Intervistatore: A chi si contrappone la figura del pedagogo? 
D. Pennac:  Al demagogo da un lato e al mercante dall'altro. Purtroppo nella scuola non mancano i professori demagoghi, quelli che fanno finta di essere degli adolescenti per conquistarsi la simpatia degli allievi. È un atteggiamento che infantilizza sia i professori che gli allievi. In realtà i giovani, hanno bisogno di confrontarsi con degli adulti veri, la cui presenza li aiuti a costruirsi. Gli adulti devono indicare i limiti, spingere allo sforzo intellettuale ed esigere una certa sollecitudine riflessiva. Tutto ciò per insegnare ai ragazzi a riflettere da soli. Il pedagogo è colui che riesce a far sentire agli allievi che l'esercizio dell'intelligenza può essere una fonte di piacere. Il demagoghi invece propongono sempre le soluzioni più facili e soprattutto fanno sempre appello ad un'identità collettiva, una sola per tutti, dove si annulla ogni singolarità. A scuola, ma anche al di fuori, nella corsa al consumismo, nella moda, nella politica e perfino nella pratica artistica. Il demagogo è il pifferaio magico che seduce e ci conduce al disastro. 
Intervistatore: Perché i demagoghi oggi hanno tanto successo? 
D. Pennac:  Perché l'autorevolezza che nasce dall'esempio della singolarità è sempre più rara. È sempre più raro trovarsi di fronte ad un adulto capace di pensare con la propria testa e avere un comportamento indipendente, un adulto che dia l'impressione d'essere veramente se stesso e non il prodotto di mode e pensieri dominanti.
Intervistatore: Il successo della demagogia corrisponde ad una perdita globale di spirito critico? 
D. Pennac: Si, ma la perdita globale di spirito critico è figlia del bombardamento pubblicitario televisivo cui sono sottoposti sempre di più i bambini e i giovani. La pubblicità stuzzica in permanenza il loro desiderio di possedere (che in loro viene immediatamente confuso con il desiderio d'essere), trasformandoli tutti in clienti. Il pedagogo deve provare a decostruire questa situazione, tentando di trasmettere il piacere di comprendere, in modo che un allievo possa anche decidere di riflettere invece di passare il suo tempo a consumare, il che è già una manifestazione di spirito critico.
Intervistatore: Ma lo scrittore può anche essere un pedagogo?
 D. Pennac:  Non è il suo ruolo. Naturalmente dietro lo scrittore c'è un individuo reale che ha delle convinzioni e dei princìpi, ma non è assolutamente detto che ciò debba essere riconoscibile nelle sue opere. Più che pensare a insegnare qualcosa, lo scrittore deve sperare di diventare una compagnia per chi lo legge, nella convinzione che la lettura debba restare sempre un piacere per gli adulti come per i bambini. È pensando a questa relazione esclusiva che lo scrittore affronta ogni volta la condizione meravigliosa e stupita della solitudine di fronte all'oceano della lingua.
Intervistatore: Scrivere per i bambini è un esercizio più difficile?
D. Pennac:  In generale scrivo sempre per gli adulti, ma ogni tanto ho bisogno di rivolgermi anche ai più piccoli. In fondo, nella letteratura per l'infanzia e in quella per gli adulti i temi sono quasi sempre gli stessi, come dimostrano le fiabe. Cambia però la scrittura, che è più semplice, ma anche più rigorosa, dato che è sempre alla ricerca della parola giusta e precisa. La semplificazione non deve mai risolversi in perdita di senso.